5 Aprile,ore 4.30 del mattino,apro gli occhi come folgorato..Modena dorme serena nell’abbraccio della notte , un buio ancora invernale che avvolge come ovatta soffice. Per il mondo sta per iniziare un’altra giornata come le altre. Per me no.Questo aprile sarà diverso da ogni altro di questi 32 anni. Mi vesto come facevo alle elementari,quando preparavo mutande calzini e maglietta la sera prima per poter andare come un automa al mattino. Dopo tanti anni, è un sistema che dimostra una grandiosa affidabilità e ciò mi lascia piuttosto compiaciuto. Sveglio con una gentilezza che non sapevo di possedere il povero Coti, che nel suo giorno di riposo si è immolato per la mia causa e mi accompagnerà all’aeroporto in cambio della sola soddisfazione di salutarmi per ultimo.
Che Madagascar sia.
La onlus prevede partenze ogni due mesi circa, nel mio caso avrò due compagni nel lunghissimo viaggio che mi porterà da Bologna a Parigi e da lì ad Antananarivo da dove poi proseguiremo in macchina o Jeep verso Fiorentsoa, Tulear per poi raggiungere, finalmente, Andavadoaka. Il primo è Marco, giovane infermiere, con cui capisco che andremo d’accordo dalla prima stretta di mano e la seconda è Elvis Jabba, ex infermiera ora in pensione, soggetto su cui la comunità scientifica e in particolare, socio-antropologica, dovrebbe interrogarsi.
Diciamo che Elvis ha reso il viaggio di andata più lungo e faticoso di quanto realmente fosse. La logorrea è per me, un peccato capitale, sarà che ne sono agli antipodi, ma per me è una malattia da inserire nel registro ICD del ministero della salute.Lei è costituita da miliardi di piccole cellule logorroiche,per cui 4 giorni di viaggio sono stati un travolgente fiume in piena di parole non richieste, soprattutto nei momenti peggiori, guarda le 5 di mattina o all’apice della stanchezza, dopo 12 ore di buche. E così io e Marco abbiamo dovuto decidere cosa fare, se essere educati o dirle chiaramente le cose come stavano? Abbiamo deciso per la fantasia.. fingevamo di dormire, di non sentire, indossavamo occhiali da sole anche di notte e bevevamo rum e birra fino ad essere completamente storditi. Nemmeno una logorrea massiva però potè nulla di fronte allo spettacolo della natura che ci abbagliava ad ogni chilometro. Scendemmo dall’altopiano di Antananarivo dove il verde rigoglioso riempiva gli occhi, i banani si alternavano ai pini e la terra rossa bruciava sotto il sole dell’autunno malgascio. Centinaia di km mangiando la terra e il cielo con gli occhi, attraverso risaie e piccoli villaggi, accompagnando bambini in divisa verso le scuole o mandrie di Zebu verso i loro pascoli, superando i taxi brousse stracolmi di persone ed animali, salutando cortesemente i migliaia di posti di blocco sparsi per la Route 7, pronti a inventare una piccola contravvenzione in onore dei Vazaha arrivati dall’Europa. L’idea che la maggior parte degli europei hanno del Madagascar è quella di un’isola tropicale dove regna turismo e benessere, una nazione africana solo per la condanna geografica ma che si distacca completamente dall’africa divorata dalla fame e massacrata dalle guerre e dalle epidemie. Naturalmente niente di più lontano dalla realtà. E’ un paese fortunato perchè il mare è una fonte di sostentamento inesauribile,perchè più di 18 etnie diverse convivono manifestando tra loro un sereno disprezzo che non sfocia in nulla di più. Ma la povertà, la fame, la prostituzione e il valore dato alla vita umana è lo stesso dell’Africa che ho conosciuto in Zambia o in Tanzania.
Attraversammo distese di verde che arrivavano fino all’orizzonte, costeggiammo il parco dell’Isalo e conoscemmo il deserto di rocce che arriva fino a Tulear. L’essere in viaggio, come benzina per il cuore e per la mente. Era il mio rifornimento. Da Tulear dovemmo cambiare mezzo,il furgoncino non era più sufficiente,salutammo così il nostro nuovo amico Titi, che ci ha accompagnato in tutta quella traversata guidandoci nei villaggi e soprattutto facendoci arrivare sani e salvi su strade che non hanno nulla dell’etimologia della parola, se non il senso che sono la lingua di terra su cui si è costretti a a passare se si vuole davvero arrivare al sud del Madagascar.
Tulear di notte sembra una Tijuana africana, il buio assoluto, i taxi a pedali che sfrecciano, le puttane ovunque , i venditori in strada , le fiamme e la musica lontana..avevo idea che se si fosse sopravvissuti lì, si poteva vivere ovunque. Con la luce del sole cambiò tutto. La musica onnipresente da il tempo alle foglie di palma che ondeggiano,baciate dal vento, le persone sono tutte in strada, centinaia di migliaia di persone che sfrecciano per non si sa dove,le baracche di lamiera accolgono carne appesa,ricoperta di mosche per il miglior offerente, frutti esotici mai visti affollano i bancali e mucchi di stracci sono in vendita per pochi Ary.
Usciti dalla città perdo completamente l’uso della parola e m’immergo nel più bel viaggio in macchina mai fatto nella mia vita. Saliamo e scendiamo sulla sabbia,bianca come farina, specchi d’acqua ricordano la stagione delle piogge appena passata e i villaggi sono fatti di capanne di legno e paglia, che incorniciate tra le dune e le palme, lottano ogni giorno per rimanere in piedi sotto i colpi del vento e del sole. Poi il paesaggio cambia di nuovo, arriva la foresta spinosa, la brousse, arrivano i cactus giganti e i primi baobab, comincio a sentirmi un ospite atteso, e sembra che ci sia lo zampino di un architetto di esterni davvero eccezionale.E’ tutto perfetto. Ed è quando non pensavo di potermi più stupire che sono rimasto fisso incredulo a contemplare lo spettacolo che avevo di fronte.
Eravamo arrivati al mare.Ricordo che ebbi un paio di extrasistole e subito pensai di aver fatto veramente la scelta giusta a prendere quel dannato aereo.Mai viste tante sfumature d’azzurro, milioni di conchiglie e di granchi, nessuno sulla spiaggia se non qualche raro pescatore pronto a caricare la sua piroga per la pesca.
Marco e io abbiamo bevuto il nostro solito litro e mezzo di birra ghiacciata e una volta scoperto che il paradiso era riuscito a silenziare anche Elvis,ci siamo resi conto che stava iniziando qualcosa d’incredibile.
Arrivammo ad Andavadoaka un venerdi pomeriggio e pensai che non potevo essere stato così geniale, aspettavo le brutte notizie da un momento all’altro, sicuramente saranno tutti stronzi,mi dicevo, sicuramente prenderò qualche malattia, sicuramente non opererò come avevo pensato…non può essere vero… non posso aver trovato un piccolo ospedale in un paradiso tropicale che mi permetterà di operare. Queste cose a me non capitano. Almeno fino al giorno in cui le fai capitare..
Ci presentammo subito al gruppo…Benedetta,Michela, Gabriella,Stella e Marianna, dottoresse e infermiere che erano lì già da parecchio tempo, ci accolsero come fossimo un dono divino e solo qualche giorno dopo capimmo che tanta gentilezza non era legata al fatto che fossimo indiscutibilmente bellissimi, ma alla cioccolata che ci avevano chiesto di portare. Anche con loro capii subito che non avrei avuto problemi, erano sveglie ed entusiaste…saremmo stati una grande squadra.
La conferma arrivò la sera dopo quando decisero di portarci al Dada, baraccone in legno sulla spiaggia, unico locale della zona, dove locali ed europei si mescolano in pista sulle note dei più grandi successi malgasci affogando con rum alla vanilla e birra, le distanze che li separano. Ricordo le gare di ballo,i trenini diventare ragione di vita, la ridicola paranoia di prendermi qualcosa attraverso tutti gli abbracci di uomini sbronzi e sudati, il passo dello scorpione della Gabri e il tornare sbronzissimo a casa guidato dalla via lattea che brillava sopra le nostre teste.
Non poteva essere la mia vita.
Da lì in poi cominciammo a lavorare per davvero, 150 visite al giorno, ambulatori che correvano e pazienti in reparto in attesa dell’anestesista per l’intervento chirurgico.
E’ stato pazzesco poter organizzare l’attività di sala in prima persona, formando questi nuovi amici per affrontare insieme le giornate entusiasmanti che ci aspettavano. E così tutti ad imparare i fili, i nomi dei ferri chirurgici, i movimenti dei ferristi e a mettere punti.
Cominciammo a fare ernie e chirurgia ambulatoriale senza anestesista, in anestesia locale, e andò alla grande, la soddisfazione di arrivare alla fine di un intervento in quei posti, con quei mezzi, con i tempi giusti, senza sprechi, aiutato da ragazzi che non erano mai entrati in sala è stato pazzesco. Niente più paura. Ora il chirurgo sono io.
Poi arrivarono anestesista e ginecologo, due primari in pensione, il primo con un ricordo ancora troppo fresco del suo passato per non soffrire del passaggio africano e il secondo veterano del posto, persona eccezionale e soprattutto un minchione di caratura internazionale!
La convivenza forzata dei missionari è stata l’altra avventura, ci dovemmo ricredere su Elvis, non era più il tormento dei primi giorni, ma anzi era una zia affettuosa e divertente, con la battuta sempre pronta e che vegliava sui nostri successi e le nostre minchiate con attaccamento materno. Poi arrivò Giampy, altro civile, ferroviere in pensione, matto come un cavallo, scopatore in cripte di basiliche consacrate e folle compratore di barili di gamberetti in offerta, tormento di ogni nostra serata fino al sacro momento della rivolta, quando, per non sentirlo più, presi una panca e uscii di casa per guardare le stelle, seguito a ruota dagli altri, recapitandogli un messaggio internazionale che faceva più o meno cosi:”hai 40 anni più di noi,lasciace in pace e vai a dormi!”.
Alle 7:30 iniziava l’attività frenetica, un medico e un infermiere in ogni ambulatorio, io il ginecologo e un infermiera a fare il giro visite nel reparto e poi via in sala.
Sala con aria condizionata rotta, pochi camici a disposizione, ferri carbonizzati dalla sterilizzazione,mosche che all’improvviso raggiungevano le mie pinze e soprattutto la carne viva dei pazienti, dando il via a 10 minuti di folle “schiaccccialaaaaaaa”. Adattarsi era imperativo e piano piano abbiamo imparato a sprecare sempre meno e a compiere gesti utili e finalizzati. Sono stati giorni intensi e meravigliosi.Per sempre mi ricorderò la mia prima resezione intestinale africana..aver rivisto la signora cagante e sorridente è stata una gioia che ancora mi riempie. Ustioni, fratture, Ernie, bugni vari, annessectomie, isterectomie, tanti tantissimi ascessi. Abbiamo dato una mano a tanta gente e mai come in questo caso ti rendi conto di quanto puoi dare.
La meraviglia del nostro lavoro era però affiancata da uno scenario irreale, ogni sera a turno, un gruppetto si staccava per andare al mare in piccole baie di spiaggia bianca,deserte,un pò di birra e si rimaneva lì a veder le piroghe scivolare al tramonto in quell’oceano così tiepido. Per non parlare delle gite della domenica per i fortunati che non erano di guardia,si partiva in barca o in piroga all’eplorazione di veri e propri paradisi tropicali dove noi eravamo gli unici esploratori. E come se non bastasse mai mangiato tanto pesce fresco.
L’unico vero problema era ricordarsi di essere missionari, quando hai 25-30 anni e fai il lavoro che ti piace nel posto che ti piace con persone che stimi non credi che ci sia necessità di avere un codice di condotta, tutto è semplice, spontaneo, lineare.
In realtà sei a molte migliaia di km da casa e le tue abitudini più semplici sono guardate con curiosità e diffidenza in quei villaggi, ballare con loro può essere preso come sintomo di poca serietà o addirittura di offesa per la loro cultura. noi siamo i vazaha venuti per curare. Non è casa nostra. Ed è così che un gruppo magnifico di lavoratori è stato messo al patibolo dalla Onlus per qualche serata in discoteca più movimentata delle altre con la parola rimpatrio a risuonare come la peggiore delle minacce.
Ma eravamo giovani motivati e professionali, abbiamo mandato giù la critica mossa dai capi villaggio e ci siamo messi a lavorare..i risultati sono qui sotto.
Lo ripeto, mai fatta cosa più giusta di questa.
Non c’è modo di rendere quest’intervento esauriente. Ho vissuto troppo intensamente i quei 30 giorni. Spero solo che queste parole e queste immagini mi ricordino tra qualche anno che è tempo di fare i bagagli e rimettersi in gioco.
Misautcha Andavadoaka.